Donald Meltzer: cenni introduttivi e spunti biografici

Per introdurre brevemente all’opera psicoanalitica di Donald Meltzer (New Jersey, 14 agosto 1922 – Oxford, 13 agosto 2004) mi sembra che la cosa più semplice sia partire da uno dei suoi ultimi scritti, anzi la trascrizione di un suo intervento in un convegno a Londra nel 1998 per il suo 78mo compleanno, se non erro: ‘A review of my writings’, pubblicato poi negli atti di quella Conference.

E’ un testo che mi ha sempre affascinato per la sua levità, leggerezza, insieme alla densità, alla profondità e all’estrema chiarezza, almeno a mio parere, oltre che per l’effetto di stimolare nuovi pensieri ogni volta. Mi sembra una summa essenziale della sua opera, rivisitata in termini di un’estrema semplicità, sia per gli aspetti teorici che pratici di conduzione di un’analisi . Mi colpisce in particolare il tono colloquiale, semplice, ‘sincero’ (Sincerity è il titolo dello scritto che dà il nome alla raccolta di scritti dell'autore curata da A.Hahn) a volte un po’ patriarcale, forse, a contrasto con i toni da scopritore inarrestabile, a volte quasi superbi nella loro sicurezza, dei grandi scritti della maturità, che forse anche per questo sono spesso stati mal accolti nel mondo psicoanalitico. Meltzer a un certo punto uscì dall’Istituzione psicoanalitica ufficiale fondata da Freud (l’International Psicoanalytic Association) ma diventò il punto di riferimento di vari gruppi di psicoterapeuti e psicoanalisti in giro per il mondo, a partire dagli psicoterapeuti Tavistock, almeno per una fase. Negli ultimi anni di vita questi gruppi hanno dato luogo a meeting annuali in onore del nostro autore, alternando Londra e altre città del mondo, e poi a un sito internet che riprende il nome di Atelier formativo, seguendo un pensiero che Meltzer accarezzava come formazione libera in psicoanalisi.

Quanto segue è un sunto e una traduzione (mia) di ampie parti di quello scritto, con qualche commento aggiuntivo. Non so se violo diritti di qualcuno, pubblicando questo articolo sul mio sito, prego eventualmente di informarmi e contattarmi.

Meltzer riguarda dunque in questo lavoro - pronunciato di fronte a una platea di persone conosciute e raccolte in suo onore -, alla sua esperienza di quarant’anni, per vedere cos’è cambiato nel suo modo di pensare e dilavorare, magari senza accorgersene chiaramente, e per comunicarlo agli uditori. Come sempre nelle sue esposizioni, Meltzer parlava 'a braccio'.

Il Processo Psicoanalitico e il Transfert Preformato
Parte dal Processo psicoanalitico, del 1965, libro epocale che resta una pietra miliare nella descrizione - pur se scritto in un linguaggio difficile ed ‘ermetico’, forse - di quello che succede in un’analisi, del ‘processo’ appunto che si avvia quando si creano le condizioni alla base della ‘situazione psicoanalitica’. Meltzer diceva in quel libro che è questo processo a costituire il fulcro del lavoro terapeutico dell’analisi, in cui funzione dell’analista è quello di presiedervi, per così dire, cioè di mantenere le condizioni per cui il processo stesso si sviluppi.
Il primo capitolo del libro era dedicato alla ‘raccolta del transfert ‘ (o ‘dei transfert’, come chiarirà) ed era basato a suo tempo in gran parte sull’esperienza con i bambini, in cui il semplice fornire la situazione di setting attirava come una calamita il bambino e il transfert, facendo partire rapidamente il processo analitico. Meltzer afferma che man mano che ha aumentato la pratica con gli adulti quello che gli è stato progressivamente più chiaro è che con i pazienti adulti è tutto molto più complicato. “Invece che quell’attrazione senza sforzi di tutti i processi di transfert della vita del paziente nel setting psicoanalitico (come avviene con i bambini, NdR) diventa chiaro che è necessario prima smantellare quello che chiama ‘transfert preformato’ del paziente adulto.” Meltzer dice che questo transfert preformato, basato sulla maggior o minor conoscenza o anche sulle fantasie riguardo al metodo analitico e all’esperienza analitica, dev’essere tolto “ come una vecchia baracca in giardino, prima di poter cominciare a costruire qualcosa di nuovo”. Può essere una cosa veloce, di poche settimane, o può prendere mesi o anni. Una componente di questo transfert preformato è a volte il tranfert erotizzato, cui sia analista che paziente possono indulgere resistendo a ‘smantellarlo’, come un aspetto piacevole anche se forse fastidioso. A volte bisogna tirar via 'impietosamente' questo aspetto (come con i capricci e le bizze dei bambini, mi viene da pensare…, NdR) per liberarsene e stabilire la ‘situazione analitica’, come la chiamava M Klein, cioè “la situazione nella quale i transfert della vita di una persona sono per così dire ‘risucchiati’ come da un aspirapolvere” nella situazione analitica." Si può sempre chiamare questa prima fase ‘raccolta del transfert’, commenta l’Autore, ma sembra che con gli adulti ciò comporti un processo molto più attivo e faticoso che con i bambini.
( Mi viene da pensare a certi pazienti che si preserntano avendo già fatto un’esperienza analitica, in cui questo transfert preformato è estremamente rinforzato, come una corazza narcisistica…)

Il claustrum: l'imprigionamento in stati mentali
La seconda cosa che Meltzer trova cambiata rispetto al libro di 40 anni prima è che le ‘confusioni geografiche’ di cui parlava come una fase iniziale dal processo sono spesso un’impasse tremenda. La trattazione di questo tema rimanda al suo lavoro di approfondimento sull’identificazione proiettiva, sugli stati mentali connessi ad essa e sulle relative conseguenze di cui ha scritto nell’ultimo libro da lui pubblicato, nel 1992, Il Claustrum.
Il problema è quello che “parti della personalità o la personalità tutta intera può essere in uno stato di identificazione proiettiva che porta a vedere il mondo in modi molto peculiari (…); liberare la personalità o le parti di essa che vivono in identificazione proiettiva è un problema molto difficile, e per vari aspetti ‘non è un lavoro analitico’ ”. Pià che definirlo, dice, ha tentato di descrivere come affrontarlo, “essenzialmente descrivendo il tipo di mondo in cui la persona o parte della personalità sta vivendo, e distinguendolo da come è il mondo esterno visto dall’esterno, anche se questo spesso gli assomiglia, in un aspetto o nell’altro, specialmente nella sua organizzazione gerarchica, burocratica. Per questo a volte è difficile convincere il paziente che non è proprio così che il mondo è… (In Claustrum Meltzer usava, come possibili illustrazioni della vita nel mondo dell’identificazione proiettiva, opere letterarie come ‘Il grande fratello’ di Orwell, o ‘Il nuovo mondo’ di Huxley, o ‘Oblomov’ di Goncharov, e altri, o opere artistiche come ‘Il giardino delle Delizie’ di Bosch. Aggiungerei come mia tardiva scoperta, se posso permettermi, 'Il Gattopardo' di Tomasi di Lampedusa, che forse Meltzer non conosceva)
“Man mano che il lavoro di questa descrizione trova appoggio sul materiale del paziente e diventa più convincente – continua - quello che tende a cadere via è l’aspetto identificatorio dell’identificazione proiettiva, il suo aspetto ‘grandioso’, in un modo o nell’altro, in tutte le sue manifestazioni, anche quelle apparentemente opposte, misere, ma che si chiariscono come tali quando appare che la persona si considera ‘la più misera’, ‘la più colpevole’”. Anche Freud aveva segnalato l’aspetto grandioso della depressione, identificandone l’essenza narcisistica. “Quando questa grandiosità viene erosa - dice Meltzer - quello che comincia ad apparire è l’aspetto claustrofobico sottostante, il senso di essere imprigionato in uno stato della mente, senza sapere come venirne fuori”.

Credo che qui Meltzer tocchi uno degli aspetti più importanti e fecondi della sua opera esplorativa e descrittiva del lavoro clinico psicoanalitico. Anche se qui non lo cita esplicitamente, sembra a me uno sviluppo dei concetti di Bion su contenuto e contenitore, adombrati esplicitamente in ‘Il cambiamento catastrofico’. In particolare è la scoperta di quelli che mi veniva da chiamare ‘contenitori sostitutivi’, o ‘patologici’ (‘recipienti’ li chiamava G Polacco Williams), sulla scia della ‘seconda pelle’ descritta da E Bick nei bambini autistici e post autistici (Meltzer la cita ampiamente in Esplorazioni sull’autismo, opera che non tocca in questo escursus, ma che resta fondamentale per la descrizione dello stato mentale autistico e dell'identificazione adesiva).
La necessità universale di un contenitore per lo sviluppo e la vita, sia biologica che mentale, dalla membrana cellulare in su fino all’atmosfera gassosa che circonda la terra, fa sì che anche un involucro patologico è meglio che nessuno, e la patologia mentale ( ma anche quella sociale e politica, e le vicissitudini delle religioni che Bion ha indagato nel suo lavoro iniziale sui gruppi e di nuovo nelle ultime opere) appare in questa luce come il problema dei contenitori patologici, di come vengono a costruirsi progressivamente, a una certa epoca di vita, diversi e con conseguenze diverse da un epoca all’altra, bloccando o alterando profondamente lo sviluppo della personalità e il funzionamento mentale. Di rimando pare a me sempre più che la clinica di oggi ci mostra come il lavoro principale appare essere quello di liberare i pazienti dai contenitori –prigioni in cui stanno rinchiusi, e in cui forse la psichiatria farmacologica di oggi contribuisce a chiuderli, poco cambiando da quando li chiudeva nei manicomi, sacrificando comunque le loro possibilità di vita libera. E nel caso dei bambini, di evitare che ci si rinchiudano o ci vengano rinchiusi, inconsapevolmente… Aiutando ovviamente a costruire dei contenitori più funzionali.

L'uscita dal claustrum
Tornando a seguire Meltzer nel suo excursus sul mondo nell’identificazione proiettiva (che per lui è sempre patologica, apparentemente), quello che ha scoperto gradualmente, dice, “man mano che riusciva meglio ad aiutare i pazienti a sfuggire da quello stato della mente, è che mentre i pazienti vivono in quello stato, uno non li conosce. Non solo è diverso il mondo in cui sono da quello in cui tu sei, come persona sana (si spera, NdR), ma la personalità dei pazienti è diversa, adattata al mondo grottesco dell’identificazione proiettiva, e quando emergono da quello stato mentale è come se uscissero da una crisalide di qualche sorta e gettassero via quello che Bion chiama il loro ‘esoscheletro’. Come nella descrizione di Keats di Psyche, cominciano a muovere le loro ali, e si comincia a vedere qualcosa pieno di colori e attraente. Con i pazienti borderline - aggiunge - la cui personalità è sommersa quasi interamente nell’identificazione proiettiva, il processo è molto lungo e richiede una quantità di resistenza, sia da parte dell’analista che del paziente” . E torna a definiree il lavoro dell’analista in questa fase come ‘non analitico’, nel senso che “non è un’ esplorazione della mente e di come questa lavora, ma per lo più è una descrizione delle conseguenze della vita in quello stato, cosa che – dice- non è molto interessante, in realtà. O meglio può esserlo le prime volte, ma poi è come vedere lo stesso film di terz’ordine più e più volte: perde interesse nonostante la bellezza degli attori e delle attrici e delle scenografie e così via.”
Come Teseo esce dal labirinto grazie al filo di Arianna, facendo a ritroso la strada per cui era entrato, così deve fare –dice Meltzer - anche il paziente intrappolato là dentro, ritrovare la strada per cui si era infilato in quello stato. E l’analista deve riscoprire con ogni paziente la differente strada per cui sono entrati. Ma quando il paziente comincia a emergere, - “oscillando aventi e indietro, perché quello che trovano fuori è una depressione terribile, un senso di aver sprecato il tempo, che sia troppo tardi “– le cose cominciano a trasformarsiin un’esperienza analitica che diventa più piacevole, perché il paziente comincia a cooperare e diventa interessato al lavoro analitico.

Spunti autobiografici
Meltzer tratta poi molto discorsivamente e familiarmente di alcuni spunti autobiografici, delle sue impressioni personali sul suo lavoro, sullo scrivere di psicoanalisi, sulle supervisioni dei vari gruppi che lo chiamavano periodicamente, sulle reazioni dei pazienti alle pubblicazioni… e finisce per dire “In un certo senso, scrivere lavori psicoanalitici è una forma di plagio”. Qui forse Meltzer adombra problemi irrisolti di pubblicazione, di comunicazione fra psicoanalisti, di formazione e trasmissioni di conoscenze.
Parlando retrospettivamente della sua prima fase di training come di un periodo di ‘pseudoscienza’, parla della scoperta, fatta iniziando il rapporto con M Klein, che “non aveva capito niente dai suoi libri”. Riferisce aneddoti dalla sua analisi con lei (che pure pubblicò materiale su di lui…), il quadro del cavallo che ispirò il primo sogno e anche un capitolo di un libro, in cui parla appunto della sua passione per i cavalli. Accenna al cambiamento vissuto come analista, dalla soddisfazione iniziale (narcisista? NdR) di sentirsi un analista al senso dell’esperienza del rapporto fra paziente e analista. E forse tocca qui un altro problema irrisolto, che accennavamo prima, del narcisismo di aver-fatto-l’analisi che unisce a volte pazienti e analisti in quella che lui chiamava la ‘mutua idealizzazione’ e che forse alligna nelle istituzioni psicoanalitiche, difficile da controllare.

Passa poi impercettibilmente a parlare, in pochi cenni, della fine di un’analisi di questo tipo (il che indica fra l’altro che ci sono molti tipi di analisi...), delle incertezze dell’analista timoroso come nel vedere il bambino beneamato muovere i primi passi nel mondo. In realtà, sembra dire, col riferimento alla frase di Wittgenstein “ora posso andare avanti”, che non è l’analista che sa quando il paziente è pronto: può solo assistere, direi per parte mia, al bambino che muove i primi passi. E’ lui che ‘si stacca’ e va quando è il momento.

Rileggendo la parte centrale di questo scritto, più autobiografica e centrata sul suo produrre concetti e scritti psicoanalitici, in particolare riguardo forse quello che notavo inizialmente come un modo ‘grandioso’ di porsi da parte dell’autore, mi sembra quasi che retrospettivamente Meltzer tratteggi sé stesso, in un periodo, come quasi a rischio di perdersi in una specie di ‘selva oscura’ da cui, sembra dire, fu forse aiutato a uscire dall’opera di Bion. Quasi novello Dante con Virgilio- che ha esplorato un Claustrum ante litteram -(Beatrice è lontana, noi forse possimo aspirare solo a salvarci dall’Inferno dello stato mentale narcisistico) anche Meltzer sembra aver avuto il suo periodo e le sue parti nel Claustrum, e aver dovuto vagare alla ricerca di un filo d’Arianna…). La sincerità che trovo in questo scritto e che mi affascina forse è un aspetto dell’uscita dal claustrum, dell’esserne fuori…

L'impatto con Bion
L’autore affronta poi l’impatto di Bion sul suo modo di lavorare. Per così dire l’ombra di Bion aleggia sull’opera di Meltzer che in parte ne è stato anche uno dei primi interpreti e diffusori. Gli ha dedicato l’ultimo libro della sua trilogia sul ‘filone kleiniano’ dello sviluppo psicoanalitico, importante opera didattica e interpretativa su Freud Klein Bion (cui possiamo aggiungere lui stesso, idealmente, come ultimo esponente di questo particolare sviluppo): non casualmente forse tutte persone in contrasto con l’establishment del loro tempo. A volte Meltzer si è ribellato, come disse in una conferenza, al ruolo di interprete/successore di Bion, che forse qualcuno gli dava, ma è indubbio che l’impatto di Bion sulla seconda parte della sua opera e forse della sua vita sia stato forte.
“La sorta di spostamento verso l’approccio di Bion alle funzioni mentali fu un lento ma molto grande sommovimento nel mio modo di lavorare. –dice Meltzer - Il mio lavoro era stato molto preso dalla preoccupazione kleiniana per la struttura, come la distribuzione di ‘parti del sé’ e degli ‘oggetti’ e così via, che era molto in linea con la mia naturale tendenza a ragionare in modo concreto e strutturato”.
“Il modo di pensare di Bion in termini di ‘fattori’ e ‘funzioni’ sembrava molto più immaginativo e astratto, ma non mi arrivò così facilmente. Il tramite, dice fu l'interesse per il linguaggio: "ebbi da trovare la mia strada verso di quello attraverso il linguaggio, con un nuovo interesse per il linguaggio che cominciò a metà degli anni ’70, con uno studio quasi intensivo della linguistica (erano anche gli anni che si diffondeva il lavoro psicoanalitico-linguistico di Lacan, NdR), e io cominciavo a tormentare i miei pazienti sulle parole e l’uso di esse.”
Questa quasi mania linguistica forse contribuì a una dislocazione rispetto alla psicoanalisi corrente – dice- e si incontrò con un'altra quasi ‘mania’ di Meltzer, quella appunto per gli ‘oggetti parziali’, finendo per determinare un allontanamento dai colleghi kleiniani di Londra. I concetti bioniani di fattori e funzioni e la griglia e le idee sui disturbi del pensiero, si combinavano con le funzioni degli oggetti parziali in modo forse sconcertante per chi lo sentiva. Meltzer quasi si scusa, non ci poteva fare niente -dice-: era così che la sua ‘immaginazione’ lavorava. Non era teoria, ma il fatto che la sua immaginazione era così assolutamente fissata sui sogni come strumento informativo fondamentale per costruire quello che stava passando nella testa di qualcun altro.

Il sogno
“Era la fiducia che i sogni dicono la verità che mi teneva incollato agli oggetti-parziali e alle loro funzioni, e il vedere che i sogni erano pieni non necessariamente di simboli, ma di oggetti parziali: la casa era la madre, per quel paziente, non la ‘rapprersentazione simbolica‘ della madre, l’aereoplano era il pene del padre, non solo lo rappresentava.” (Sembra qui di risentire la Klein di fronte al gioco dei bambini, da lei per prima visto come messa in scena concreta del contenuto della loro mente)
Meltzer aggiunge che “la distinzione fra simboli e oggetti parziali sembrava chiaramente rivelata dai sogni e rivelava la concretezza che coinvolgeva i processi di pensiero e i sentimenti sottostanti, che impediva che trovassero una forma di risoluzione, se non quella di essere trasformati in modelli di acting-out. Un acting out che era una cosa molto concreta, non certo simbolica: la cosa più facile del mondo, e la più naturale, andare dalla rappresentazione all’azione, quando la rappresentazione stessa era così concreta che solo il camminare per casa trasformava il tuo stato mentale, o il salire a bordo di un aereo immediatamente ti metteva di fronte alla claustrofobia…”
Così – continua- cominciò a vedere che il concetto di acting-out, che era correlato con la trasformazione di immagini mentali in azione nel mondo esterno, era strettamente connesso con la concretezza degli oggetti parziali.
Sul sogno Meltzer ha pubblicato un libro specifico, intitolato "Dream Life"

La griglia di Bion
In particolare inoltre veniva fuori che non si potevano trattare come dei simboli, disponibili per pensare, ma erano rappresentazioni disponibili solo per l’azione.
In un certo senso la griglia di Bion non ne teneva conto abbastanza – secondo Meltzer - perché sull’asse orizzontale l’ultima voce è quella dell’ ‘azione’, e non della ‘comunicazione’. Ciò era fuorviante – sebbene pensi che egli corresse tutto ciò in Memoria del Futuro, con il meraviglioso dibattito senza fine del terzo volume. Sono sicuro che era chiaramente inteso che doveva essere senza fine. E questo è messo dentro la griglia: la possibilità di un dibattito senza fine, perché, come dice, ogni pensiero passa attraverso un processo di digestione e raggiunge un punto in cui diventa un concetto, e allora può essere riportato indietro nella griglia al livello della preconcezione ed elaborato di nuovo a un livello ancora più alto. Qui, secondo Meltzer, Bion realizza che anche il suo asse verticale non è del tutto corretto, ma che non doveva svilupparsi a questi livelli matematici ma piuttosto a livelli emozionali, come il livello estetico ed infine il livello spirituale.
Naturalmente – commenta Meltzer - io mi sento un po’ come stessi dirottando la griglia, alterandola per farla combaciare con i miei scopi –pur pensando di migliorarla…

Critica del concetto di Istinto di Morte
Meltzer giunge qui a una affermazione epocale, nel suo distacco da Freud e Klein e Bion: "nel momento in cui era possibile porre una griglia negativa per la creazione delle bugie e della ‘propaganda’, come un una modalità contraria al metodo di digerire i pensieri in processi del pensare, a quel punto non è più necessario postulare la distruttività in altro modo che non la descrizione di un comportamento. Non c’era più bisogno di qualcosa come l’istinto di morte, o ‘homo homini lupus’, o’niente è più basso dell’uomo’ e cose di questo genere." Non c’è bisogno di questo pessimismo, perché secondo lui la distinzione fra comportamento, pensare e emozioni era sufficiente a differenziare il pensare dalle bugie, dalle confabulazioni, dalla propaganda, dalla statistica, e così via… Pensando questa differenziazione sulla base del comportamento, si potevano derivare da ciò tutte le azioni viziose e i genocidi ecc di cui si può desiderare dar conto. Non c’è bisogno di postulare l’esistenza di un istinto di viziosità. Meltzer dichiara di non esser mai stato troppo convinto riguardo all’istinto di morte…
Si legge in queste parole di Meltzer una dichiarazione di distacco dal pessimismo biologico freudiano e dal manicheismo morale kleiniano che postulano l’esistenza di due pulsioni contrarie, eros e tanatos, buono e cattivo, come prima origine delle vicende della personalità e degli eventi umani. Sulla base delle elaborazioni bioniane Meltzer si libera della teoria dell’istinto di morte pensando che il problema di sempre dell’umanità, l’esistenza del male ‘umano’, per così dire, sia attribuibile, sulla base della griglia di Bion positiva/negativa, semplicemente a una modalità di pensiero anomalo rispetto a quella funzionale al pensare i pensieri, senza bisogno di tirare in ballo entità trascendenti, come hanno fatto le religioni, né immanenti, biologiche, come ha fatto Freud, e altri prima di lui, coniando il concetto di pulsione di morte, e la Klein quello di invidia primaria. (in termini più attuali chissà se possiamo parlare dell’antinomia bene/male come del contrasto fra processi mentali che permettono lo sviluppo del pensiero – rappresentati nella griglia positiva, come segno matematico, come i legami l, h, k, più/meno - rispetto a processi mentali più simili ad algoritmi preformati, che precludono lo sviluppo del pensiero come funzione autonoma, libera. Il ‘preformato’ rispetto allo spontaneo, ‘sincero’ sono forse l’apice dei due versanti divisi dal crinale fra verità e falsità, male e bene, sanità mentale e follia. Meltzer più volte cita ad esempio Il nuovo mondo di Huxley o Il grande Fratello (cioe 1984 di Orwell). Bene e male in ultima analisi sarebbero coincidenti a sanità mentale e a patologia, perversione delle facoltà mentali.

Questo cambiamento di fondo, dice Meltzer, ha importanti implicazioni nell’analizzare i pazienti e nel riconoscere i problemi dei sogni del paziente.

Le Istituzioni Psicoanalitiche
Meltzer conclude il suo giro attraverso i cambiamenti insidiosi nel suo modo di lavorare riguardando ai suoi primi anni come psichiatra e studente di psicoanalisi negli Usa, e accenna a un contesto rigido, gerarchico, dove l’obbedienza era la richiesta maggiore, "come per i preti… Non un vero lavoro analitico. In Inghilterra trovò qualcosa di diverso, con la 'Signora Klein' e nella Società Psicoanalitica Britannica, ma poi l’istituzione diventò progressivamente meno tollerante, più autoritaria e meno interessante, portandolo infine a togliersi da essa.

Forse non è casuale che Meltzer finisca la sua retrospettiva con una nota sulla sua vicenda istituzionale, che ha toccato d’altronde più volte in altri passi; cioè con l’argomento delle istituzioni psicoanalitiche, che sono andate moltiplicandosi a dismisura ripsoducendo forse gli aspetti negativi. Il riferimento ai ‘preti’ rimanda direttamente alle istituzioni religiose, alle chiese, con i loro scismi e moltiplicazioni di sette, ecc.
E’ probabile che siamo di fronte a un problema irresolvibile, almeno nel pessimismo di Meltzer, che riguarda un possibile contrasto ineliminabile fra i processi di conoscenza e il controllo di questi, cui le istituzioni sono funzionali. Bion ne ha parlato magistralmente nei termini di mistico e gruppo, idea nuova e establishment.
C’è solo da chiedersi come mai l’ambito della psicoanalisi sembra più affetto che altri – salvo quelli delle religioni e della politica forse, del potere, insomma – da questa specie di cancro distruttivo che mina lo sviluppo. O forse ne è affetto, nè più nè meno, come qualsiasi attività conoscitiva umana. Il tutto rimanda al mito biblico dell’albero proibito: quello dell’albero della conoscenza resta un mistero imperscrutabile. Qualcuno ha detto commentando Bion (se non Bion stesso) che la mente è stata forse un dono non richiesto al genere umano, foriero di gloria ma anche di lutti incomparabili, rispetto agli altri esseri viventi.

Restano non toccati o quasi da questo excursus meltzeriano alcuni temi cha hanno costituito campi importanti delle sue esplorazioni, e fra l'altro lo stesso concetto di lavoro psicoanalitico come esplorazione e descrizione fenomenologica resta un lascito importante dell'autore. Il campo del lavoro sull'autismo, cui abbiamo accennato, si sviluppa nell'elaborazione delle tematiche relative all'oggetto estetico e al conflitto estetico, che rappresentano forse il contraltare degli spazi del 'claustrum', cui anche le esplorazioni sulla sessualità patologica e sugli stati perversi della mente si riagganciano. Un'altro campo illuminato dai concetti di Meltzer è quello dell'adolescenza e dei fenomeni di gruppo che l'accompagnano. Assolutamente pionieristico e però non più ripreso è il lavoro sulle interconnessioni fra ambiente, organizzazioni familiari e sviluppo dell'individuo alla luce dei concetti gruppali bioniani, che aspettano ancora uno sviluppo (vedi qui un cenno).

Vedi qui per una bibliografia meltzeriana aggiornata (in inglese).
Bibliografia essenziale in italiano.

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