Sulla morte provocata di Lucio Magri

Quello che fa discutere non è tanto la scelta di morire di Magri - quanti suicidi ci sono ogni giorno! - quanto le modalità 'medicalmente assistite' e la partecipazione di altre persone al fatto, sia gli amici e i compagni, informati e partecipi in qualche modo all'ultimo saluto, sia le persone professionalmente attive nell'assistere e provocare la morte. Ci dicono che Magri era depresso e che dopo la morte della compagna riteneva, lo ha scritto, di non avere più l'intelligenza, la determinazione e la capacità di continuare a dare un contributo valido al vivere comune. O qualcosa di simile. Riteneva cioè che la sua vita non valesse più la pena di viverla. Mai l'espressione è così giusta: "valere la pena", cioè avere un valore uguale alla pena, al dolore di vivere. La questione mi interessa non tanto da un punto di vista giuridico , che pure è importante, quanto psicologico a livello non solo individuale ma sociale, al di là dell'alone narcisistico, se vogliamo, delle parole scritte da Magri.

La motivazione dei partecipanti all'evento e di chi è per l'eutanasia e la libertà di suicidio assistito è che il decidere sulla fine della (propria) vita è ritenuto un diritto inalienabile anche se non riconosciuto quasi da nessuna parte, tranne che in Olanda e in Svizzera, sembra. Direttamente collegato a questo concetto c'è, credo, quello della responsabilità personale dei propri atti. Uno è libero di scegliere se è responsabile. Un minore non è considerato responsabile,- almeno fino a quattordici anni, solo parzialmente da quattordici a diciotto - e quindi non è considerato libero delle proprie scele. Ugualmente non lo è un soggetto interdetto, per incapacità mentale, ad esempio, la cui responsabilità la Legge affida a un tutore (oggi si parla di amministratore di sostegno). Questione fondamentale quindi sarebbe quella di valutare se il suicida al momento della scelta è responsabile o in qualche modo menomato nella sua facoltà di giudizio e quindi non responsabile, nè libero di decidere, almeno giuridicamente. Toccherebbe allora al suo tutore deciderlo, eventualmente, ma probabilmente molto meno persone sarebbero d'accordo, nel timore di un qualche 'conflitto di interessi'.

Tutto quindi sembrerebbe ridursi all'effettiva capacità di scelta. Ma anche chi è capace legalmente può sbagliare, commettere errori. Tanto è vero che è responsabile delle conseguenze dei propri errori. Se uccide qualcuno 'per sbaglio', ad esempio per una guida imprudente, deve rifondere i danni. Ma se sbagliare è umano, perseverare è diabolico, dice l'adagio. E forse anche assistere allo sbaglio senza intervenire -sapendo che c'è una possibilità di sbaglio - lo è, o è per lo meno da irresponsabili, cioè letteralmente tipico di chi non si prende la responsabilità: "l'ha voluto lui, io non c'entro".

La questione più importante, a mio giudizio, riguarda però il "valore sociale", o meglio il "danno sociale" del suicidio, che le stesse parole di Magri toccano: contribuire al vivere comune. La mia posizione, per quanto può interessare, deriva dal concetto - cresciuto nella mia pratica clinica psicoterapica, individuale e familiare - che il peso, la fatica della vità è invariabile e suddiviso fra chi lo porta. In una famiglia assistiamo ai danni provocati dallo scaricare il peso di funzioni adulte, genitoriali, sui figli. Se qualcuno si sottrae al suo peso, un peso maggiore ricade sugli altri. La vita umana, come fenomeno che ha aspetti sociali ineliminabili, dalla nascita alla morte (e anche la morte di Magri ne è un esempio), ha un aspetto di 'collaborazione ' e 'condivisione', che impedisce possa essere valutata e decisa da un punto di vista esclusivamente individuale. Se vogliamo, possiamo appunto considerarla un 'lavoro' (quante parole anche in psicologia e psicoterapia hanno la radice 'lavoro': collaborazione, "elaborazione" -guarda caso spesso associata al lutto, ecc), un lavoro per forza di cose condiviso e partecipe, da cui non possiamo sottrarci senza causare un aggravio di lavoro ai compagni di vita.
Pertanto vivere la vita non ha solo un significato individuale, ma anche sociale, e non è quindi attribuibile al singolo individuo il diritto di decidere su di essa e sul porvi fine.
Per cui, se possiamo accettare l'errore individuale come umano, credo non possiamo accettare l'avvallo di gruppo, o addirittura legalizzato, per il suo significato altamente antisociale, che è forse la traduzione corretta dell'aggettivo 'diabolico' del vecchio adagio.

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